Con ogni probabilità ciascuno di noi ha già sentito, letto e visto di tutto sui primi cento giorni della Presidenza Trump, la tradizionale e non di rado effimera “luna di miele” tra l’elettorato americano e il nuovo inquilino della Casa Bianca. “Luna di miele” più distruttiva che costruttiva, un poco per colpa di Trump, vedasi la sua guerra dei dazi contro l’universo mondo, e un poco per colpa dei suoi simpatizzanti, il Presidente russo Putin e il premier israeliano Netanyahu che hanno silurato il suo disegno di due paci istantanee in Ucraina e a Gaza. Meglio quindi parlare, anziché dei passati cento giorni, dei prossimi cento che saranno decisivi perché Trump ha sospeso i dazi per tre mesi e quindi bisognerà trovare un accordo su di essi, e perché nel frattempo si dovrà porre fine ai massacri dei palestinesi e degli ucraini. Poiché credo, nonostante tutto, nell’Italia e nell’Europa esprimo questo auspicio: che se si terrà un negoziato sui dazi tra gli Usa e l’Ue Bruxelles lo affidi a Mario Draghi. Non c’è personalità europea che goda di maggior prestigio in America del nostro ex premier e mancato Presidente della Repubblica. In America Draghi diresse la rappresentanza italiana presso il Fondo Monetario e la Banca Mondiale e fu poi assunto dalla superbanca Goldman Sachs, e da Wall Street a Washington nessuno lo ha dimenticato.
Ruolo cruciale per l’Italia
L’Italia, dove troppo spesso la politica è rissosa e disfattista, ha la fortuna di avere uno dei migliori Presidenti della Repubblica della sua storia. Sergio Mattarella è la voce della coscienza del Paese, la sua guida etica, un modello da seguire, senza di lui saremmo quasi allo sbando. Ma la Presidenza Trump mi ha indotto a pensare che nell’attuale guerra dei dazi il ruolo dell’Italia sarebbe cruciale per il mondo intero, Cina inclusa, se Draghi sedesse al Quirinale. Draghi ha competenze e conoscenze senza pari anche oltre l’Atlantico e il Pacifico e non solo in campo economico, e verrebbe ascoltato per lo meno in parte dalla Casa Bianca e dal Congresso. Insieme con Giorgia Meloni, che checché ne dica la nostra sinistra è riuscita a stabilire un rapporto con Trump e con Ursula von der Leyen, la Presidente della commissione europea, sarebbe al timone dell’Europa. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale avremmo tanta (se non più) voce in capitolo quanto la Germania, o la Francia o l’Inghilterra. Non è possibile prevedere che cosa farà Trump, ma alcuni dei suoi ministri e consiglieri premono affinché apra delle trattative, e il Consiglio e il Parlamento europei devono essere pronti a tenerle. Anche i colossi emergenti avrebbero fiducia In Draghi.
La mancata elezione al Quirinale
Se Draghi non sarà scelto come negoziatore capo, l’Italia rimpiangerà amaramente la sua mancata elezione a Presidente della Repubblica nel gennaio 2022. La candidatura di “Supermario”, come lo chiamano negli Stati Uniti, venne bocciata perché faceva paura ai leaders dei partiti, soprattutto a Conte dei Cinque stelle e a Salvini della Lega. Eleggerlo Presidente era nell’interesse dell’Italia e rispondeva alla volontà della maggioranza degli italiani, ma con lui al Quirinale i partiti sarebbero stati declassati. A mio parere, non ci fu mai dimostrazione più chiara che certi nostri leaders politici antepongono la loro brama di potere e i loro interessi personali al bene del Paese. Draghi, senza cui l’Italia perse credibilità, fu costretto a dimettersi da premier, cosa che causò scalpore nel resto della Ue. Fortunatamente, la sua eredità non è stata dispersa da Giorgia Meloni, che sta facendo meglio del previsto. Ma sarebbe assurdo se Roma e Bruxelles non si avvalessero di lui in questo momento di crisi. Non scordiamo che Draghi, allora al comando della Bce, la Banca centrale europea, salvò l’Europa dalla dissennata austerità economica dei suoi governanti dopo il crollo di Wall Street del 2008 e 2009. E che da alcuni mesi è stato chiamato da varie istituzioni europee a discutere delle questioni più scottanti, dazi inclusi.
La strategia con Trump
Al riguardo, Draghi ha tracciato la strategia da seguire con Trump. Non cedere all’antiamericanismo generato dal Presidente americano ed evitare rappresaglie che scatenerebbero una guerra finanziaria mondiale a discapito di tutti. Negoziare uniti con lui non solo sui dazi ma anche sui maggiori (molto maggiori) oneri che l’Europa assumerà per la propria difesa. Aumentare sempre più gli investimenti e i consumi e liberalizzare sempre più i commerci all’interno dell’Ue. Cercare nuovi mercati senza però ignorare del tutto le richieste di Trump. Con queste direttive, dopo avere salvato l’Europa con la Bce dal 2011 al 2019, adesso Draghi potrebbe contribuire a salvare l’Occidente con l’appoggio di una “coalizione di volonterosi”, come è di moda dire. Un Occidente che da ottant’anni è la colonna portante della stabilità e prosperità mondiali ma che rischia di sfaldarsi e lasciare il futuro di questo secolo nelle mani della Cina. Se si dividessero, gli Usa e l’Ue farebbero il gioco di dittatori come Putin e il Presidente cinese Xi, che non attendono altro per imporsi politicamente e militarmente oltre che economicamente e tecnologicamente sul resto del mondo, l’America compresa. Draghi è il leader più adatto a spiegarlo a Trump, sordo sinora alle critiche del governatore della Fed, la Banca o Riserva Federale, Jerome Powell.
Appoggi non solo in Europa
Il primo ad appoggiare “Supermario” sarebbe probabilmente il premier canadese Mark Barney, che ha già proposto al Presidente dell’Ue, l’ex premier portoghese Antonio Costa, “una forte partnership tra l’Europa e il Canada” per arginare l’effetto Trump. Barney è stato governatore della Banca del Canada dal 2008 al 2013 e della Banca d’Inghilterra dal 2013 al 2020, anno in cui tentò di attutire i gravi danni causati dalla Brexit, a cui si era invano opposto. Diffida di Trump, che vuole annettersi il Canada come cinquantunesimo stato americano (non avverrà mai, ha promesso), ed è in sintonia con Draghi di cui è da tempo collega e amico. Pronto ad affiancarsi loro è il cancelliere tedesco Fiedrich Merz, che sinora in prevalenza ha taciuto ma che ha programmato massicci investimenti a difesa dell’Unione europea. E pronti sono altresì il Presidente francese Macron e il premier inglese Starmer, i leaders europei che assieme a Meloni sono più in contatto con Trump, nonché Ursula von der Leyen, che spera di incontrarlo. Non c’e’ dubbio che in eventuali trattative sui dazi il Giappone si schiererebbe dalla loro parte, e in seno al G7, il gruppo delle potenze industriali, l’America si troverebbe una contro sei. Trump è molto sprezzante nei confronti del G7, ma il Gruppo è il timone economico dell’Occidente.
Le pressioni su Trump
L’esordio del Presidente americano sulla scena europea con quell’invettiva “l’Ue fu concepita per fregarci” ci scosse tutti, e la sua presenza a Roma alle esequie di papa Bergoglio è parsa a molti un passo di riavvicinamento a noi. C’è da sospettare che Trump, con cui il Santo Padre condivise poco o nulla, sia venuto in Italia, a differenza di Netanyahu e Putin, anche per tenersi stretto l’elettorato cattolico statunitense, che in maggioranza ha votato per lui, e per ostentare in America l’ossequio mostratogli da alcuni altri “grandi” (non tutti). Ma senza dubbio lo ha spinto a farlo l’entourage di quei consiglieri, parlamentari repubblicani, generali, banchieri e via di seguito che in casa hanno visto le Borse, i commerci, il dollaro e la produzione scendere e l’inflazione salire, e fuori gli alleati come noi correre ai ripari. Essi devono avergli chiesto una linea più morbida sui dazi non solo con l’Europa ma anche con i colossi emergenti e con i Paesi in via di sviluppo. A San Pietro Trump non vi ha fatto cenno ma ha parlato a Ursula von der Leyen e contro ogni aspettativa ha concluso un accordo con il Presidente ucraino Zelensky sulle terre rare. Non si può, non si deve escludere a priori che nei prossimi cento giorni il Presidente ne concluda un altro sui dazi, vantaggioso a lui ovviamente, ma non troppo dannoso a noi.
I rischi dell’autarchia
Paradossalmente, salvando se stessa l’Europa salverebbe pure l’America da un leader che potremmo chiamare il deplorevole uomo dei dazi. E ridarebbe al mondo la vecchia America, quella di cui c’è bisogno. La Ue sembra disposta a investire cinquanta miliardi di dollari negli Usa in cambio della revoca dei tassi del dieci per cento impostile pro tempore da Trump. Il Presidente è un despota che sta alimentando l’opposizione interna con editti controversi, tra cui l’espulsione di bambini nati negli Usa e con la cittadinanza statunitense, violando la Costituzione, perché di madri straniere entrate illegalmente nel Paese. E sta licenziando centinaia di migliaia di statali, tagliando i fondi dello stato assistenziale, denunciando i media e le università non allineate e così di seguito. Se non cambierà strada, con la produzione in calo e l’inflazione in aumento, e con la sua crescente censura, Trump si alienerà e impoverirà buona parte dell’elettorato americano. I primi segni di protesta incominciano a comparire nella popolazione. Negoziare sarà anche nel suo interesse. Lo pensa oltre all’Europa la Cina, ansiosa di evitare un conflitto che se scoppiasse finirebbe però con la sconfitta dell’America. L’autarchia non è la ricetta di un nuovo boom economico, ma di una nuova grande depressione, come accadde nel 1929 – 1930.
Ennio Caretto