Prima di denunciare il presidente americano Trump come un altro criminale di guerra come si fa col premier israeliano Netanyahu, è bene riflettere sui motivi dei suoi traumatici bombardamenti sugli impianti nucleari iraniani. Mentre Netanyahu non ha giustificazioni per la sistematica distruzione di Gaza e le atroci sofferenze del popolo palestinese, Trump ne ha qualcuna per l’eliminazione della bomba atomica degli Ayatollah, bomba che prima o poi avrebbero usata contro Israele “su volontà di Dio per cancellarlo dalla faccia della terra”, come da essi spesso ribadito. L’Iran ha rifiutato un estremo negoziato segreto in Turchia offertogli dal Presidente americano, spostato non si sa quanto materiale nucleare in località nascoste che però verranno anch’esse scoperte e distrutte, e attivato la sua potente rete terroristica. Trump, che assurdamente aspira al Nobel della Pace a cui il Pakistan lo ha già candidato, non ha più avuto alternative: o stroncava la minaccia atomica iraniana o prima della fine del suo mandato si sarebbe trovato alle prese con una crisi ancora più grave dell’attuale. Solo i suoi B2 potevano trasportare le bombe “bunker busters” (distruggi bunkers) che penetrano a grandi profondità e vanificare così i piani degli Ayatollah.
Le altre ragioni di Putin
Ci sono altre ragioni per cui Trump ha spalleggiato Netanyahu. I presidenti russo Putin e cinese Xi hanno formato con l’Iran un fronte antioccidentale in Medio Oriente e nel Golfo Persico, e al tempo stesso hanno aumentato le pressioni sui propri “nemici”, Putin sull’Ucraina con l’escalation della guerra e Xi su Taiwan in Asia con le manovre militari aeronavali ai limiti delle sue acque. Con loro si è schierato il dittatore nordcoreano Kim Jong-Un, che ormai dispone di missili atomici di lunga gittata, e rappresenta perciò un pericolo globale. Secondo Trump, questa “banda dei quattro”, come si definirono in Cina i leaders estremisti al crepuscolo del maoismo, ossia l’Ayatollah Khamenei, Putin, Xi e Kim, andava messa sull’avviso che l’America è la prima superpotenza e se necessario preserverà l’attuale ordine internazionale con la forza. Se dopo non essere intervenuto in Ucraina non fosse intervenuto in Iran, Trump avrebbe perso credibilità e non solo i quattro ma anche tutti gli altri suoi avversari avrebbero visto in lui una tigre di carta. Ovviamente, il Presidente americano è ora chiamato a contenere il conflitto tra l’Iran e Israele e a rilanciare le trattative di pace, ma non dipende solo da lui, anzi dipende soprattutto da Khamenei e da Netanyahu. L’Europa dovrebbe fare di tutto per una presa di contatti tra l’Ayatollah e il premier.
L’appello di Leone XIV
La settimana scorsa Leone XIV, il Papa della pace, ha ricordato ai potenti che “la politica va vissuta come una missione”. E la Premio Nobel iraniana della pace Narges Mohammad ha rilevato che “Khamenei e Netanyahu ci hanno promesso un futuro migliore con le uccisioni e le violenze ma ci hanno portato all’inferno”. Il problema è proprio questo: se i due leaders, e Trump, Putin, Xi, Kim, nonché Zelensky a Kiev, vivessero la politica come una missione, anteporrebbero la salvezza dei propri popoli a ogni altra cosa, e invece si compiono stragi tra novanta milioni di iraniani, tra trentasette milioni di ucraini, dieci milioni di israeliani e cinque milioni di palestinesi, una tragedia umanitaria spaventosa. Purtroppo, al momento le prospettive di una tregua sono ancora più fievoli di quelle di un negoziato, perché l’Iran cerca di estendere il conflitto all’intero Golfo Persico con il blocco dello stretto di Hormuz e all’intero Medio Oriente con attacchi a Israele e alle basi americane da parte delle milizie di terroristiche di Hamas a Gaza, di Hezbollah in Libano e degli Houthi nello Yemen. E Trump è pronto a bombardarlo di nuovo, come George W. Bush fece all’inizio del secolo in Afganistan e in Iraq con conseguenze disastrose.
Europa impotente
Sei mesi or sono, all’ingresso alla Casa Bianca, Trump garanti’ una “pace istantanea” in Ucraina e a Gaza. Oggi ha a che fare con tre guerre, e anziché porvi fine è in prima linea nella più rischiosa di tutte. Il mondo non se ne capacita, e persino in America c’è chi dissente duramente, dai democratici che ne chiedono l’impeachment o destituzione ai Maga i seguaci del suo movimento (Make America great again, fa di nuovo grande l’America) che lo criticano in grande maggioranza. E’ il fallimento del trumpismo ma anche della diplomazia, a partire da quella europea che si è dimostrata impotente nei confronti della più crudele teocrazia moderna. Sei mesi fa, molti di noi immaginarono di essere di fronte a un mondo tripolare, Washington, Mosca, Pechino, più o meno in buoni reciproci rapporti, con l’Unione Europea come consulente. Si temeva che spartissero la terra in zone d’influenza, ma senza scontrarsi tra di loro, e mantenendo il precario equilibrio esistente nel Golfo Persico e in Medio Oriente. E’ accaduto il contrario. Washington Mosca e Pechino si combattono tramite lo spionaggio, le alte tecnologie, le guerre di terzi come quelle di Gaza e dell’Ucraina, tentando di espandersi un po’ ovunque, negoziano quasi solo sui loro soldi e i loro affari. Si condannano d’ufficio a vicenda, vedasi le proteste di Putin e Xi contro i bombardamenti sull’Iran, ma mascherano tutto dietro una pace fredda e finte o interminabili mediazioni.
Grande destabiizzatore
E’ fondamentale che questa trojka cambi strada. Ma è anche fondamentale fare chiarezza sul mondo dell’Islam, e in particolare sul regime degli Ayattolah in Iran e sulle responsabilità dei troppi Stati islamici che lo hanno assecondato insieme con la Russia, la Cina e la Corea del Nord. Il regime di Teheran è il peggiore della storia moderna e si è macchiato di crimini di massa contro l’umanità dallo sterminio dei suoi dissidenti alla schiavitù delle donne, e ha voluto l’atomica a fini offensivi, di aggressione, non difensivi, di protezione del Paese. Esso mira non solo al genocidio degli ebrei e alla pulizia etnica degli altri “infedeli”, noi cristiani, ma anche al dominio di tutti i musulmani, cosa che in ultima analisi comporta la conquista della Mecca, la Città Santa nell’Arabia Saudita. E’ stato e rimarrà il grande destabilizzatore della regione più esplosiva di oggi se gli Ayatollah non saranno cacciati. Soprattutto gli Stati Arabi moderati, che adesso manifestano il loro sdegno e la loro ira contro Trump, avrebbero dovuto contenerlo e isolarlo, invece di permettergli di armare addestrare e finanziare il terrorismo che da oltre mezzo secolo provoca bagni di sangue in quasi tutti i continenti. Nell’ottobre del 2023, quando capirono che questi Stati, sollecitati dall’America e dall’Europa, prendevano le distanze da loro e si avvicinavano a Israele, gli Ayatollah scatenarono la rabbia omicida di Hamas e altre milizie islamiche.
La Primavera araba
Tredici anni fa, all’apice delle guerre e del terrorismo mediorientali, da noi purtroppo già scordati, Barack Obama, il primo Presidente nero americano, aprì un dialogo tra l’Occidente e l’Islam con il suo storico discorso sulla “Primavera araba”, cioè sull’avvento della democrazia, a suo parere ormai imminente, nel mondo musulmano. George W. Bush, il suo predecessore, aveva tentato di portare la democrazia nell’Islam con il “cambio dei regimi”, ossia rovesciando con le armi Saddam Hussein in Iraq, i talebani in Afganistan, e così via, ma aveva fallito clamorosamente, e Obama s’era reso conto che la democrazia deve nascere dall’interno di un Paese non può essergli imposta dall’esterno con la forza. Il Presidente compì un esperimento con l’Egitto, un baluardo filoamericano in Medio Oriente, obbligandone il leader Hosni Mubarak a dimettersi e facendo indire libere elezioni, ma fu un fiasco strepitoso. Salirono al potere i Fratelli Musulmani, parenti stretti di Hezbollah e Hamas, e soltanto il golpe del generale Al Sisi l’anno dopo impedì ai loro Imam, versione sunnita degli Ayatollah sciiti, di trasformare l’Egitto in un altro Iran. Obama dovette prendere atto che l’Occidente è democratico e l’Islam è fideista e assolutista.
Quale cambio di regime?
Nessuno sa a quale cambio di regime a Teheran ambiscano Netanyahu e Trump nel caso che gli Ayatollah vengano spodestati. Il premier israeliano si è limitato a incitare gli iraniani a “ribellarsi e liberarsi” e Trump ha taciuto. Ma l’insegnamento della storia è chiaro: all’Iran sgombro della più crudele teocrazia del secolo servirebbe un altro Ataturk (traduzione: padre della Patria), un generale come Mustafa Kemal, che nel 1923 fondò la Repubblica turca. Alla caduta dell’Impero Ottomano nella Prima guerra Mondiale, Ataturk realizzò la più importante rivoluzione politica e culturale del mondo musulmano abolendo il califfato, trasformando la Turchia in uno Stato laico e a suffragio unico e con il voto alle donne, introducendo l’alfabeto latino e ispirando il diritto a quelli europei, adottando la domenica come giorno festivo e così via. Al motto “senza pace in patria non c’è pace all’estero” Ataturk strinse buone relazioni anche con nemici storici, dalla Grecia alla Russia alla Francia e all’Inghilterra. Immaginare che in una Teheran senza più Ayatollah potrebbe sorgere una democrazia in tempi brevi è ingenuo. Stabilizzare la forze armate eliminando i “Guardiani della rivoluzione islamica”, garantire la sicurezza del Paese e organizzare a media scadenza vere e libere elezioni sarebbe il compito più difficile e urgente, compito più di un militare che di un politico.
Ennio Caretto










