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Netanyahu, la carestia come arma

Ciò che il premier sta facendo contro i palestinesi a Gaza rischia di diventare la pagina più funesta di Israele

Redazione di Redazione
5 Giugno 2025
in "Finestra sul mondo" di Ennio Caretto, Cittadina, Cronaca, Prima Pagina, Primo Piano
Ennio Caretto scrive per La Vita Casalese

Ennio Caretto

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Nella guerra di Gaza, il premier israeliano Netanyahu sembra avere trovato una nuova arma, forse la peggiore possibile perché invece delle forze armate nemiche colpisce le vittime civili più deboli e innocenti, i bambini, gli anziani e le donne. E’ l’arma della fame, la carestia la chiama Hamas la milizia terroristica della Palestina, la stessa arma impiegata dal dittatore sovietico Stalin negli anni Trenta contro l’Ucraina. Per sottomettere i rivoltosi ucraini e per assumere il potere assoluto a Kiev, Stalin fece letteralmente morire di fame sei milioni di loro sottraendone o distruggendone i raccolti e rifiutando di fornire aiuti, un’eredità pesantissima e mai dimenticata che rende quasi impossibile la pace tra Putin e Zelensky nella loro attuale guerra. L’ “holodomon” o grande carestia, come passò alla storia, caratterizzata da cadaveri e scheletri nelle strade e nelle piazze e da taciuti episodi di cannibalismo, fu uno dei capitoli più infami della vicenda dell’Urss. E quanto Netanyahu, che non è un dittatore alla Stalin ma un leader democraticamente eletto, sta facendo contro i palestinesi a Gaza rischia di diventare la pagina più funesta della odissea di Israele.

“Diritto internazionale da rispettare”

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Che sia vera o no l’accusa di Hamas alle truppe israeliane di avere sparato sulla folla palestinese che si aggrappava ai pacchi alimentari, è abominevole che essa venga ridotta alla fame perché gli aiuti occidentali sono totalmente gestiti in modo strumentale dal governo Netanyahu. Come ha ammonito il cardinale Zuppi, che trasmette il pensiero di papa Leone XIV, “Israele deve rispettare il diritto internazionale umanitario”. E invece da tre mesi c’è un embargo israeliano sulla distribuzione degli “aiuti di larga scala” forniti dall’Occidente come ha sottolineato il capo della Commissione europea Ursula van der Leyen. Oxfam, la più nota istituzione al riguardo, lamenta che i palestinesi “vengano spinti alla ricerca di cibo verso il 20 per cento circa del territorio di Gaza”, e che Israele bombardi i pressi dei centri dove si smistano i soccorsi. Una denuncia equivalente a quella della distruzione di scuole e ospedali, distruzione in cui la dottoressa Alaa ha perso nove dei dieci figli, tragedia che ha indotto alle lacrime l’ambasciatore palestinese all’Onu Mansour e ha spinto il premier britannico Stramner a definire “moralmente sbagliata” la condotta di Netanyahu.

L’obiettivo “Grande Israele”

L’obbiettivo del premier israeliano è chiaro, è quello di costruire una “Grande Israele” da Gaza alla Cisgiordania, dove ha autorizzato ventidue nuovi insediamenti di coloni, “altro ostacolo alla pace” ha protestato Starmer minacciando sanzioni. Netanyahu intende allontanare dai loro territori oltre due milioni di palestinesi e prenderne possesso, ma non può alienarsi l’America né l’Unione Europea, e per questo la settimana scorsa ha indicato di essere disponibile a trattare con Hamas accettando un piano negoziale americano che prevede una tregua di sessanta giorni e uno scambio di prigionieri. Su di lui hanno pesato anche le esortazioni di papa Prevost e del nostro ministro degli Esteri Taiani secondo cui “questi morti innocenti feriscono i nostri lavori e indignano le nostre coscienze”, ma resta inamovibile il suo veto alla costituzione di uno Stato della Palestina in pacifica convivenza con quello di Israele. Hamas ha ragione a chiedere che la tregua conduca a negoziati certi su questo punto. Il popolo palestinese, che sta pagando un prezzo atroce in vite umane per la propria indipendenza, ne ha il diritto.

Il ruolo di Hamas

Hamas ha tuttavia torto nel non cercare un compromesso che “ponga fine alla guerra e alla carestia” come ha detto Bassem Naim, uno dei suoi leader in esilio, e che apra la strada ad accordi più ampi. Dà la sensazione di attenersi ancora al “tanto peggio tanto meglio” cioè alla dottrina che più Israele commette atrocità e più la causa di Hamas innanzitutto e quella palestinese in secondo luogo (non sono identiche) riscuotono l’appoggio del resto del mondo, dottrina che la rende corresponsabile di alcune delle azioni di Netanyahu. Non va scordato che a Gaza Hamas conquistò e conservò il potere con il terrore, tanto da essere disconosciuta dalla Autorità Palestinese, la quale risponde alle istanze democratiche della popolazione, né va dimenticato che gli orrori del conflitto sono altresì dovuti alla “strage degli ebrei” commessa da Hamas e alla continua opera di destabilizzazione del Medio Orienta praticata dall’Iran. Per fortuna Naim ha lasciato uno spiraglio a un ripensamento sul piano negoziale americano, ed è ancora possibile che nelle prossime settimane le parti interessate s’incontrino per almeno un temporaneo armistizio. 

Le potenze del Golfo

La situazione sarebbe meno pericolosa se le potenze del Golfo Persico, l’Arabia Saudita e il Qatar in primis, prendessero posizione contro l’Iran che continua ad aiutare i terroristi Houthi dello Yemen ad attaccare con i missili Israele e contribuissero a mediare presso Hamas con le Nazioni arabe più moderate. Ma sta avvenendo il contrario, come dimostrato dall’Arabia Saudita che due anni fa era quasi giunta a un accordo con Netanyahu e che adesso preme su Trump affinché gli impedisca di bombardare gli impianti nucleari iraniani, un disegno che il premier israeliano nutre da tempo e che potrebbe realizzare in sole sette ore, come segnalato da vari servizi segreti. Di più, le potenze del Golfo Persico, in passato scarsamente interessate a discutere la questione palestinese, esigono ora che venga risolta nel timore che lo scontento per gli stermini di Gaza alimenti il dissenso nei loro regimi. E’ impossibile prevedere come reagirà a questi cambiamenti Netanyahu, che attualmente si limita a colpire per rappresaglia l’aeroporto yemenita di Sana’a, dialogando soltanto con il nuovo e più cauto governo della Siria.

L’ambiguità di Trump

Ambiguo è anche il comportamento di Trump, che il mese scorso ha visitato l’Arabia Saudita, il Qatar ecc. ma non Israele, che ha negoziato segretamente con Hamas il rilascio di un israeliano con cittadinanza americana, e che sta trattando sul nucleare con l’Iran per evitare che produca la bomba atomica. A parole l’America sostiene e sosterrà sempre Israele e gli chiede di non bombardare gli impianti nucleari iraniani per il semplice motivo che ciò costringerebbe gli Ayatollah ad accelerare la produzione della bomba. Ma di fatto il rapporto tra Trump e Netanyahu si è raffreddato, il primo ha incominciato a criticare il secondo per la sua condotta a Gaza, e il piano americano per la pausa di sessanta giorni nei combattimenti non ha così avuto effetto immediato. Quanti si erano illusi che il cambio della guardia alla Casa Bianca da Biden a Trump avrebbe posto fine alla guerra in fretta devono prendere atto che occorreva e occorre molto di più, che si dovrebbe formare una coalizione tra l’America, l’Europa, l’Islam moderato e persino la Russia e la Cina, che là hanno un presenza importante, per la pace in Medio Oriente.

L’Unione Europea

Dovrebbe essere compito dell’Ue fare da collante tra i diversi membri di questa difficile coalizione per ovvi motivi geopolitici. L’Ue ha un rapporto privilegiato con Israele ed è il più vicino e più importante socio economico e culturale del Medio Oriente. Si è scontrata con Netanyahu perché sostiene giustamente che la Palestina appartiene ai palestinesi, ma è del tutto falso che conduca una “crociata contro lo Stato ebraico” come Gerusalemme ha tuonato dopo le durissime critiche del presidente francese Macron. Ed ha più continuità e credibilità nella sua politica di quanta ne abbia l’America sotto Trump, che ha esordito con l’eccentrico progetto di trasformare Gaza nella Riviera del Mediterraneo. Insieme con gli Usa con cui ha l’obbligo di collaborare, l’Ue potrebbe garantire la sicurezza di Israele e di uno Stato palestinese e assumersi la responsabilità del mantenimento della pace, cosa che riuscirebbe gradita all’Islam moderato e accettabile anche alla Russia e alla Cina. Ciò comporterebbe contenere l’Iran e ridurre drasticamente il terrorismo, obbiettivi che sono realizzabili a media se non a breve scadenza.

La voce della ragione

Si tratta di miraggi? Tutti auspichiamo di no. Nessun problema è insolubile se si ascolta la voce della ragione. Voce che non solo Netanyahu e i suoi sionisti estremi ma anche Hamas e i suoi più fanatici sostenitori devono sentire affinché dalle ceneri di Gaza non torni a risorgere il mostro dello antisemitismo. Sebbene moltissimi israeliani e moltissimi ebrei nel resto del mondo siano contrari a Netanyahu e favorevoli all’Autorità Palestinese, il confine tra antisraelismo e antisemitismo si sta facendo sempre più sottile, gli attentati contro gli israeliani e gli ebrei in America e in Europa ne sono una drammatica prova. Una nuova tregua nella Guerra di Gaza servirebbe non solo a lenire le sofferenze dei palestinesi ma anche all’Occidente a organizzarsi per prevenire qualsiasi Olocausto dei fedeli di qualsiasi religione, e a Netanyahu e a Hamas per riflettere sui disastri a cui stanno andando incontro. Lo stesso vale per la Guerra dell’Ucraina, in cui Putin tratta gli ucraini come Netanyahu tratta i palestinesi. Auguriamoci che l’anno del passaggio delle consegne da papa Bergoglio a papa Prevost sia l’anno della pace.

Ennio Caretto

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Tags: CarestiaCarettoGazaNetanyahuù
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